9.
Le
funzioni di Propp e la preistoria del
visibile
Ho scoperto da poco, e
grazie in fondo anche a Gianni Rodari, che Leonardo Da Vinci era affascinato
dai movimenti dell’acqua, ai quali
aveva dedicato più di settecento disegni, progettando addirittura un libro in
quindici sezioni sull’argomento, considerando le forme dell’acqua matrici «della
morfogenesi di tutte le forme viventi». E per questa ragione aveva «individuato
e decifrato ogni suo movimento, precisandone anche i termine con cui poterlo
identificare, formulando un vero e proprio linguaggio idrico composto da
sessantaquattro termini, tra i quali: risaltazione,
circolazione, revoluzioni, ravvoltamento, raggiramento, …furiosità, impetuosità,
declinazione, ecc.»[2].
Nei moti dell’acqua,
nel suo prendere forme diverse perché il suo scorrimento lineare trova un
ostacolo, oppure perché mossa da molteplici linee di energia interne e
superficiali, ritroviamo dei modelli universali: «dalla nube (caos puntiforme),
alla pioggia (rette parallele e inclinate), dal fiume (curve di anse) all’onda
(spirali e vortici), alla goccia (sfera), ai cristalli di neve (stelle
esagonali) e infine ai cerchi concentrici sulla superficie dell’acqua»[3].
Dietro a questo
interesse per le forme dell’acqua,
come d’altra parte dietro all’interesse di tutta la tradizione tedesca a
partire da Goethe fino a Klee[4]
per lo studio dello sviluppo delle piante (l’Urpflanze cioè, l’idea universale di pianta), c’è la «ricerca degli
invisibili diagrammi dei principi
formativi inscritti in ogni genere di forma»[5].
La ricerca cioè di
archetipi universali che vanno ben oltre il desiderio di ritrarre questa o
quell’altra forma visibile del reale.
«Percorrendo la strada
che porta all’essenziale, all’opposto dell’impressione», dice Klee, «si impara
a vedere dietro la facciata, ad afferrare le cose alla loro radice, s’apprende la preistoria del visibile, si impara a
scavare in profondità, a vedere dentro le forme visibili i diagrammi che disegnano
le attività delle forze nella continuità del processo…»[6].
La
preistoria del visibile, un’immagine bellissima, che ci
spinge ad essere tutti archeologi,
nella nostra ricerca delle forme originali e primarie, delle forme
fondamentali, in tutti i campi.
La forma insomma è «un
elemento essenziale e imprescindibile in qualunque ambito, dal microcosmo al
macrocosmo, dall’effimero al duraturo, dal continuo al discreto, dal locale al
globale, dalle strutture della stabilità al divenire, dall’energia alla materia»,
e – come ho già detto «attiene alla dimensione razionale luminosa e cosciente
della sfera umana, ma anche a quella più recondita, irrazionale e tenebrosa
dell’inconscio»[7].
La
forma è la lingua che parla la nostra mente per comprendere la realtà, per percepirla
e ricrearla…
E’ ancora Di Napoli a
dirlo splendidamente:
«La natura, la
percezione e la creazione artistica presentano una necessità ontologica comune,
quella di rendere discontinuo lo spazio e il tempo, lo sfondo e la durata, al
fine di poter delimitare, distinguere, identificare esprimere, generare
comunicare, isolare le forme dallo sfondo, i suoni dai silenzi, l’essere dal
nulla. Se ci è concesso, si può dire, che la forma fisionomizza sia lo spazio, sia il
tempo, conferendo a entrambi forme esperibili ed espressive»[8].
La forma dà figura
esperibile, percepibile ed espressiva allo spazio e al tempo. Così come Susan
Langer dice, in un libro di cui parleremo nei prossimi capitoli, che «la musica rende il tempo udibile e
sensibile la sua forma e continuità»[9]...
Un percorso simile di archeologia formale, ma pensato per la
letteratura e per le forme della narrazione e non delle arti figurative, si
trova nella Grammatica della fantasia,
che contiene a mio avviso uno dei più bei capitoli dedicati alla forma, nel capitolo Le carte di Propp.
Analizzando la
struttura della fiaba popolare - con
particolare attenzione alla fiaba popolare russa (che del resto appartiene allo
stesso patrimonio indoeuropeo cui appartengono quelle tedesche e quelle
italiane – il Propp è giunto a formulare tre principi: 1) «gli elementi,
costanti della favola sono le funzioni dei personaggi, indipendentemente
dall’esecutore e dal modo dell’esecuzione»; 2) «il numero delle funzioni che
compaiono nelle fiabe di magia è limitato»; 3) «la successione delle funzioni è
sempre identica». Nel sistema di Propp le funzioni sono trentuno ed esse
bastano, con le loro varianti ed articolazioni interne, a descrivere la forma
delle fiabe[10].
Ecco le prime sedici,
delle 31 funzioni di Propp:
allontanamento/divieto/infrazione/investigazione/delazione/tranello/connivenza/danneggiamento
(o mancanza)/mediazione/consenso dell’eroe/l’eroe messo alla prova dal
donatore/fornitura del mezzo magico/trasferimento dell’eroe/lotta tra eroe e
antagonista
Molteplici di queste
funzioni possono essere utili anche al musicista , nel tentativo di
rintracciare una preistoria dell’udibile,
come la prima, allontanamento, che
può corrispondere ad una modulazione, oppure insieme alla quarta funzione, investigazione, possono entrambe indicare una fase di
sviluppo. Danneggiamento potrebbe
corrispondere ad una frammentazione tematica o alla totale scomparsa del tema
principale, e mediazione al
mescolamento dell’elemento tematico principale con nuovi elementi.
Naturalmente poi si
possono individuare nuove funzioni, specifiche della scrittura musicale, e
questo è forse il lavoro più bello, come dislocamento
(che potrebbe corrispondere alle funzioni 15 o 23, trasferimento dell’eroe e l’eroe
arriva in incognito a casa), che potrebbe indicare uno spostamento ritmico
di una cellula tematica, espansione e
contrazione (all’eroe è imposto un
compito difficile), scioglimento
(trasfigurazione dell’eroe). Queste funzioni riguardano naturalmente il microcosmo formale, ma possono applicarsi
in maniera forse ancora più interessante alla macrostruttura.
Il lavoro di Propp[11]
sulle fiabe è molto interessante, ma altrettanto interessante è quello che ne
ricava Rodari ai fini dell’inventare e del costruire storie. Rodari riduce le funzioni a venti, e chiede a due amici
pittori di disegnare venti carte, ciascuna dedicata ad una funzione e contrassegnata da una parola. Con queste carte, in quel
laboratorio straordinario che è stato per lui la città di Reggio Emilia, ha
sperimentato la costruzione di storie con un gruppo di bambini.
Ma a parte l’utilizzo
che fa Rodari delle funzioni di Propp per il suo laboratorio permanente di creatività con i ragazzi, e che può
comunque essere preso in considerazione per degli esperimenti musicali, la cosa
che qui mi affascina come musicista è prima di tutto la possibilità di
trasformare la scoperta e la comprensione delle forme in un gioco, e poi che
siano dei ragazzi a farlo, e che, infine, possa essere estremamente divertente
e creativo questo viaggio al centro della
terra degli archetipi universali del costruire e del narrare umano.
Quando si intraprende
un cammino analitico, di qualsiasi natura esso sia, non dovremmo mai
dimenticarci di questi suggerimenti straordinari che Rodari ci dà.
E d’altronde l’idea che
l’avventura della conoscenza debba essere un gioco fatto con gioia e leggerezza
è una delle idee centrali di questo libro…
10.
Anima
ed esattezza
Non è che fosse
necessario ricorrere alle categorie di Propp per scoprire gli universali del pensiero formale. Ma il
lavoro di Propp sulle fiabe può costituire un’ulteriore spinta a cercare quegli
universali della forma, quelle «due o tre
dozzine di stampi che costituiscono la realtà»[13],
come dice Robert Musil, e a cercarli ovunque. Dalla pittura, alla letteratura,
alla musica, perfino nella televisione, nei jingle pubblicitari ed in qualsiasi
forma la creatività umana possa prendere.
Non bisogna poi dimenticar
che le fiabe possono rappresentare una vera e propria iniziazione alla
comprensione del reale, all’analisi, alla capacità di andare al di là
dell’apparenza delle cose, per coglierne l’intima essenza, poiché costituiscono
un mondo in cui tutti si possono riconoscere ed identificare, rileggendovi più
o meno inconsciamente le verità profonde ed universali della nostra vita
personale. «Le fiabe sono vere», scrive
Italo Calvino nella prefazione alla sua raccolta di Fiabe italiane, «sono il
catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e a una donna»[14].
Ed in questo i bambini
sono molto più saggi dei grandi, perché inconsapevolmente sanno, di fronte al
reale, compiere un’operazione di riduzione all’essenziale, di andare oltre al
visibile ed all’apparenza, per cogliere l’essenza stessa delle cose. I bambini
sanno che esistono veramente gli orchi, e le fate e le streghe, e non c’è alcun
bisogno che abbiamo i denti aguzzi di un cinghiale o la scopa per volare.
Il bambino quindi,
istintivamente già possiede le doti necessarie per analizzare e comprendere… E
naturalmente queste doti le sviluppa spontaneamente in relazione a cose che lo
riguardano strettamente da vicino ed entrano intimamente in contatto con lui.
«Un bimbo di tre anni,
con la sua tipica sventatezza e sregolatezza, magari non riesce neanche ad
infilarsi il cappotto (le distrazioni sono decisamente troppe: deve badare alla
tigre fantastica e all’amico immaginario, accertarsi che si copra bene anche
lui). In realtà però sta esercitando alcune delle capacità più sofisticate e
profonde della natura umana dal punto di vista filosofico…»[15].
Allo stesso modo, per
avventurarci nel mondo dell’analisi, noi adulti dovremmo partire da qualcosa
che conosciamo bene e che amiamo, qualcosa i cui gesti musicali, i cui suoni,
ci risultino familiari e vicini, che accendano la nostra voglia di
approfondirne la conoscenza. Così come è naturale avere voglia di sapere tutto
di una persona che ci piace, mentre ci lascia indifferente il conoscere il pur
minimo dettaglio di qualcuno che non ci interessa.
In un paragrafo delle
schede mi dilungherò in un’analisi della microstruttura delle Goldberg, proprio perché si tratta di
una composizione che amo e che studio da trent’anni. Tuttavia penso che questo
tipo di analisi comporti un rischio, come tutte le analisi. Che si possa
credere di capire tutto di una
composizione. Che l’analisi sia un conquistare definitivo, un dar conto e
ragione di tutto, un vincere il mistero. Mentre invece credo nell’esatto
contrario. Una composizione rappresenta un mistero
che va rispettato e penetrato con delicatezza, e con la consapevolezza che sarà
un’illuminazione parziale e infinitesimale quella che potremo ottenere.
Dice Mariagrazia
Contini, a proposito della ricerca pedagogica, qualcosa che ha valore credo per
tutte le ricerche[16]:
«non c’è pretesa di arrivare in fondo,
con questa ricerca, perché non c’è un fondo
a cui arrivare: c’è una superficie che si dilata in cerchi concentrici, sempre
più vasti, sempre più profondi, la maggior parte dei quali resterà oscura…».
Questo atteggiamento
nei confronti del sapere e della ricerca è comune a molti campi oggi. Per quanto riguarda l’interpretazione dei
sogni,, ad esempio, si tende, contrariamente al passato, a sottolineare come
sia limitata la nostra possibilità di comprenderli, come ci voglia tempo, e
soprattutto come il sogno sia un «dono misterioso» sul quale non è «possibile
dire l’ultima parola»[17].
Gli strumenti analitici
tendono invece a volte, purtroppo, a
prendere il sopravvento, e a sfuggirci di mano come ad un apprendista stregone.
E a farci dimenticare che le composizioni hanno una vita loro, uno spirito, e
soprattutto un significato, un senso, che non può trovarsi
semplicemente nella costruzione delle note o nella struttura più generale.
Questo significato si coglie molto di più avvicinandole con discrezione, e non
violandole, come farebbe un medico legale con un autopsia. Ma ascoltandole,
guardandole. E poi aspettando. E aspettando ancora.
Ho lavorato molto con la
teoria insiemistica negli anni di studio in America[18],
e quel tipo di analisi e di teoria compositiva mi ha fornito degli strumenti
preziosi per il controllo dei campi armonici, delle altezze e per la
comprensione tanto dei repertori atonali e contemporanei, quanto di quelli
antichi. Ma il rischio di quel tipo di analisi è di considerare una
composizione come un proliferare tumorale di insiemi di note, senza una vera direzione né un senso, se non la
loro costruzione e simmetria interna. Dimenticando poi quanto c’è in una
composizione oltre le altezze, in tutti i sensi.
Per questo motivo credo
che sia che i sostenitori dell’analisi ad oltranza, sia coloro che diffidano
dell’analisi, abbiano entrambi ragione ed entrambi torto.
E’ indubbiamente
necessario fare esperienza col metodo analitico, farsi le ossa e imparare a vedere, cioè imparare a vedere
l’invisibile, o meglio, ciò che non appare immediatamente agli occhi. «L’essenziale
è invisibile agli occhi»[19],
dice il Piccolo Principe…
Ma al tempo stesso fare a pezzi tutte le composizioni che
ci capitano sotto tiro con questo o quel metodo analitico non ci dice poi alla
fine molto sulla musica, sul senso del far musica, sul perché un pezzo viene
composto, e cosa ci può dire quel pezzo. E cosa fare per interrogarlo
veramente. Non serve una campagna di
Russia per occupare militarmente un territorio che non potrà mai essere
nostro, che continuerà a sfuggirci e a vincerci nonostante i nostri sforzi. E’
meglio tenere una partitura come una persona amata, e dormirci accanto e
aspettare che ci parli spontaneamente. Così ho fatto io con le Goldberg, che mi hanno seguito per più
di vent’anni prima di cominciare a disvelarsi… E soprattutto, ed è una legge
che vale per tutti gli strumenti intellettuali che si applicano alla musica, le
avventure analitiche vanno fatte al momento giusto, con la maturità giusta,
affinché non diventino filtri che chiudono l’ascolto, affinché non siano
zavorra che fa precipitare o facciano come quei palloni che si gonfiano e
bloccano il supereroe di un film della Pixar, di cui ho parlato in uno dei
capitoli precedenti.
Sono cresciuto sotto i diktat dell’analisi e del pensiero
formale, per cui solo un certo tipo di analisi si credeva capace di comprendere
una partitura, perché «si è sempre in grado di formulare opinioni oggettive e
precise riguardo alle partiture, mentre della propria esperienza musicale si
può parlare solo in maniera soggettiva ed imprecisa»[20]:
«Non esiste che un tipo
di linguaggio, un solo tipo di metod
o per la formulazione verbale di ‘concetti’ e per l’analisi verbale
di tali formulazioni: il linguaggio ‘scientifico’ ed il metodo ‘scientifico’,
[…] Qualsiasi affermazione riguardo la musica si deve adeguare a quei
presupposti verbali e metodologici che mirano alla possibilità di discussione
rigorose in ogni campo»[21].
Purtroppo questa presa
di posizione dimentica una cosa fondamentale. Che, come ho già ricordato, e
come sottolinea splendidamente Edgar Morin:
«la conoscenza non è
uno specchio delle cose o del mondo esterno. Tutte le percezioni sono nel
contempo traduzioni e ricostruzioni cerebrali… Questa conoscenza, sia a livello
di traduzione sia di ricostruzione, comporta l’interpretazione, che introduce
il rischio dell’errore…
Si
potrebbe credere di eliminare il rischio d’errore rimuovendo ogni affettività.
In effetti , il sentimento, l’odio, l’amore, l’amicizia possono accecarci. Ma
già nel mondo mammifero, e soprattutto nel mondo umano, lo sviluppo dell’intelligenza è inseparabile da quello dell’affettività,
cioè della curiosità, della passione, che sono le molle della ricerca
filosofica e scientifica. Così l’affettività può soffocare la conoscenza ma può
anche arricchirla. C’è una relazione stretta tra intelligenza e affettività: la
facoltà del ragionare può essere ridotta se non distrutta da un deficit di
emozione… la capacità emozionale è
indispensabile alla messa in opera di comportamenti razionali. Non esiste
quindi un piano superiore della ragione che domini l’emozione, bensì un anello intelletto affetto»[22].
La
capacità emozionale è indispensabile alla messa in opera di comportamenti
razionali. E’ un’affermazione importante, contenuta in un
libro importante, che, se condivisa, va messa ai primissimi posti nel cammino
della conoscenza e dell’educazione.
D’altronde le
dichiarazioni di Boretz, al contrario, rispecchiano tutto un mondo, un mondo,
solo per fare un esempio, in cui si immaginava che avremmo sostituito al cibo
le pillole, come se l’alimentazione in un uomo consistesse soltanto nell’assunzione
di una certa quantità di sostanze nutritive. Ma l’alimentazione, come
fortunatamente hanno dimostrato gli ultimi anni, è comunicazione, è creazione, è un concerto
di sensi, in cui interagisce affettività e memoria, creatività e relazione. L’alimentazione
è un attività umana superiore, vale a dire un’attività complessa e non
riducibile ad un mero nutrirsi…
Analogamente questo atteggiamento
scientifico che si ha nei confronti
dell’analisi, non fa altro che rispecchiare un atteggiamento più generale nei
confronti dell’individuo, che io non condivido.
«Non ci rendiamo conto
fino a che punto folle tutte le psicologie inducano ansia…, tutto ha bisogno di
esser studiato, indagato, analizzato… Ma
l’indagine insaziabile non è l’unica forma di conoscenza… L’apprezzamento
estetico di un’immagine - la propria
vita come una storia impreziosita fin dall’infanzia da immagini e il calarsi a
poco a poco dentro di esse – rallenta la fame indagatoria, placa la febbre, la
frenesia di scoprire il perché. La bellezza arresta il moto, dice Tommaso d’Aquino, nella Summae Theologiae. La bellezza è in se
stessa una cura per il malessere della psiche[23]
».
Apprezzamento
estetico. Quanto tempo si lascia all’apprezzamento estetico
negli anni di studio? Quanto all’ascolto puro e semplice, alla visione dell’opera? Non bisognerebbe prima di tutto
ascoltare, andare incontro ad una composizione, imparare ad amarla e a
conoscerla come entità, come un tutto, come un qualcosa portatore di
significato, e solo dopo affondare i denti dell’analisi per rubarne qualche
segreto? E andarle incontro nel luogo naturale in cui essa ci si manifesta, e
cioè in una sala da concerto, in una esecuzione dal vivo? Dare in mano ad un nostro allievo una
partitura da analizzare, prima che egli abbia avuto modo di ascoltare quel
pezzo e di entrare in contatto con
esso, è come fornire delle radiografie di un quadro, in cui emergono alcuni
elementi della composizione fisica della tela e del tipo di colori usati, ma
dalle quali sfugge totalmente il quadro stesso, il suo disegno complessivo e
ciò che ritrae. L’analisi che ne verrà fuori sarà pertanto un’analisi
particolareggiata delle sue componenti strutturali, ma assolutamente distante
da quello che il quadro stesso è e rappresenta.
E sarebbe come entrare
in una casa dal camino, al buio.
Ma al contrario di
Babbo Natale, non porteremo doni, ma quei doni cercheremo di rubarli, e al buio
sarà veramente difficile…
Dice ancora Hillman: «Voglio
che la psicologia ponga le sue basi nell’immaginazione delle persone, anziché
farle oggetto di calcoli statistici e di
classificazioni diagnostiche. Voglio che si guardi alle storie cliniche con la
mente poetica, così da leggerle per quello che sono: forme letterarie del
nostro tempo, e non relazioni scientifiche » [24].
Guardare
alle storie cliniche con una mente poetica… Ma noi non
guardiamo più nemmeno ad una sinfonia, né ad un romanzo con la mente poetica.
La vera analisi può essere soltanto quella
statistico-computazionale-strutturale…
Il forte accento posto
sulla necessità di analizzare, di sezionare
e sviscerare, rispecchia una visione profonda dell’uomo che è tipica della
seconda metà del secolo scorso. Dalle teorie di Chomsky sul linguaggio, alle
teorie psicanalitiche sull’uomo come frutto di «un impercettibile palleggio tra forze ereditarie
e forze sociali»[25], tutto
contribuisce ad una visione meccanicistica delle cose umane, perfino delle
attività artistiche.
Ma una composizione
musicale, così come un’opera d’arte, (e anche un uomo, mi permetto di dire…),
andrebbe prima di tutto guardata e studiata come un’unità, un insieme intero,
armonioso e inscindibile di parti che perdono di significato nel momento in cui
si analizzano separatamente.
Si veda ancora quanto
dice Morin, nel terzo capitolo del
suo libro, Insegnare la condizione umana:
«L’essere umano è insieme fisico, biologico, psichico, culturale, sociale,
storico. Questa complessa unità della natura umana è completamente disintegrata
nell’insegnamento, attraverso le discipline. Oggi è impossibile apprendere ciò
che significa essere umano, mentre ciascuno, ovunque sia dovrebbe prendere coscienza
e conoscenza sia del carattere complesso della sua identità sia dell’identità che
ha in comune con tutti gli altri uomini»[26].
Tuttavia, non voglio
arrivare a rinnegare totalmente gli strumenti analitici acquisiti. E’ evidente
che concordo pienamente con quanto
affermato da Joseph Kerman quando dice:
«l’ostinata attenzione
alle relazioni interne è in ultima analisi sovvertitrice… La struttura autonoma
della musica è soltanto uno tra i molti elementi che contribuiscono al suo
significato. Parallelamente alla preoccupazione nei confronti della struttura si
vengono a trascurare elementi vitali – non solo l’intero contesto storico, …ma
anche tutto quello che rende la musica affettiva, commovente, emozionale,
espressiva. Isolando la nuda partitura dal suo contesto al fine di esaminarla
come un organismo autonomo, gli analisti rimuovono quell’organismo
dall’ecologia che lo sostiene»[27].
Ma condivido
intimamente anche il desiderio di Jonathan Kramer di costruire un ponte che
unisca l’enorme distanza che esiste tra formalisti
e umanisti: «sono contrario a dare
precedenza totalmente al quantitativo
o di opporlo al qualitativo. Devono
entrambi coesistere »[28]…
Ancora una volta la mia
è la proposta utopica di andare alla ricerca di un cuore intelligente…, o di fare come il protagonista del romanzo di
Robert Musil, L’uomo senza qualità[29],
che persegue tenacemente «la simbiosi di
anima ed esattezza, una conoscenza
che unisca il rigore analitico della scienza alla percezione ed intuizione
dell’indefinibile e tortuosa profondità del sentimento»[30].
da Grammatica dell'armonia fantastica - Appunti e interludi, Anicia, Roma 2012
[1]
P. Klee, Teoria della forma e della figurazione
(1970), Mimesis, Milano 2011, vol. I, p.16.
[2] G. Di Napoli, I principi della forma – Natura, percezione e arte, Einaudi, Torino, 2011,
p. 203.
[3] G. Di Napoli, I principi…, p.201.
[4] Studi sui movimenti del’acqua e
dell’aria si trovano in realtà anche in Klee, come in Correnti d’aria del 1931 e Polla
nella corrente, del 1934. P. Klee, Teoria della forma…, pp.320/321.
[5] G. Di Napoli, I principi…, p.220.
[6] P. Klee, Teoria della forma e della figurazione
(1970), Mimesis, Milano 2011, vol. I, p.16.
[7] G. Di Napoli, I principi…, p.XIII.
[8]
G. Di Napoli, I principi…, pp. 4/5.
[9] Citato in S. Langer, Forma e sentimento, Feltrinelli, Milano
1953, p. 130.
[10] G. Rodari, Grammatica…, pp. 73/74.
[11] Interessante, nel tentativo
analogo di cercare delle ‘invarianti’, quanto afferma il chimico e scrittore
Marco Malvaldi a proposito del suo doppio ruolo: «tra la scienza di chi
sintetizza nuove molecole e l’arte di accordare parole in racconti c’è un
aspetto globale comune, e questo aspetto è il metodo», che si può dividere in
entrambi casi in queste fasi: «ricerca, sintesi, caratterizzazione, purificazione»..
Dall’articolo Scrivere è una questione di
chimica, di Marco Malvaldi, da La
lettura, supplemento domenicale del Corriere
della sera, del 15 gennaio 2012, p.32.
[12] C. De Pirro (1956-2008), da uno
scritto inedito sulla composizione Di
luce e di vento – Concerto cangiante, 2004 e riportato nella tesi di laurea
di Tania Giacomelli dedicata al compositore prematuramente scomparso: L'esperienza artistica di Carlo De Pirro,
con il catalogo delle opere, Università degli Studi Di Padova, Facoltà di Lettere
e Filosofia- Corso di Laurea Specialistica in Musicologia e Beni Musicali, anno
accademico 2009-2010.
[13] R. Musil, L’uomo senza qualità [1957], Einaudi, Torino 1972: p.579.
[14] I. Calvino, Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956, p.XVIII.
[15]
A. Gopnik. Il bambino filosofo
(2009), Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 88.
[16] M Contini, Per una pedagogia delle emozioni, La Nuova Italia, Firenze 1992,
p.8.
[17]
M. Ferraris, Dove nascono i sogni – Viaggio nella zona
limbica – Il regno delle emozioni, La Repubblica, 17 marzo 2012. Si fa
riferimento nell’articolo alle tesi del cognitivista Bruno Bara e al suo libro Dimmi come sogni, Mondadori, milano
2012.
[18] Per cui ringrazio ancora per i
suoi corsi illuminanti sulla Pitch-class set theory David Bernstein, docente di
teoria presso il Mills College, Oakland, California (1991/1993).
[19] A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe [1943], Bompiani, Milano 2001, p.9 – alla fine
del Capitolo XXI.
[20] T. Cook, Guida all’analisi musicale, Guerini e Associati, Milano 1991,
p.157.
[21] Past and present concepts
of the nature and limits of music, in B. Boretz, E.
T. Cone, (a cura di), Perspective on
Contemporary Music Theory, Norton, 1972, p.9. Citato in T. Cook, Guida all’analisi musicale…, p.157.
[22]
E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del
futuro, Raffaello cortina editore, Milano 2001, pp. 18/19, il corsivo è
mio.
[23] J. Hillman, Il codice dell’anima (1996), Adelphi, Milano 1997, p.59.
[24] J. Hillman, Il codice…, p.52.
[25] J. Hillman, Il codice…, Terza di copertina.
[26]
E. Morin, I sette saperi…,p.12.
[27]
J. Kerman Contemplating music: Challenge
to Musicology, Cambridge: Harvard University Press1985, p.73, citato in J.
Kramer, The Time of music – New meaning,
New temporalities, New strategies, Schirmer Books, New York 1988, p.4.
[28]
J. Kramer, The Time of music…, p.4.
[29] R. Musil, L’uomo senza qualità [1957], Einaudi, Torino 1972: «Istituisca in
nome di Sua Maestà un segretariato terreno dell’anima e dell’esattezza; tutti
gli altri problemi prima di questo sono insolubili o sono soltanto problemi
apparenti!», p.579.
[30] R. Morelli [a cura di], Anima ed esattezza. Letteratura e scienza
nella cultura austriaca tra Ottocento e Novecento. Casale Monferrato,
Marietti, 1983, citato in M. Contini, Per
una pedagogia delle emozioni, la nuova Italia, Firenze, 1992, p. 8, nota.