giovedì 14 aprile 2016

Ricordando Gianni Rodari - Domenica Trenta e i nomi della Puglia

Il 14 aprile del 1980 scompariva Gianni Rodari.

Vorrei dedicare questo breve racconto alla sua memoria

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Domenica Trenta
Omaggio a Gianni Rodari





Tra le tante cose che colpiscono della bellissima terra di Puglia, c’è la coincidenza tra i nomi delle città e i nomi delle persone.
In Veneto, ad esempio, non esiste niente di simile.
Ci sono paesi dai nomi curiosi e inusuali, come Albignàsego, Vigodàrzere, Cadòneghe (attenti agli accenti sulla terz’ultima), Saonara (non Saionara! J), Bovolenta, e cognomi come Giacon, Faggin, Braggion, Visentin, Rabacchin, Mescalchin…
Certo niente a che vedere con gli strani e fantastici nomi sardi di paesi come Atzara, Macomer, Noragugume, Perdasdefogu, Ussassai, Urzulei, Gonnostramatza, Fordongianus, Samugheo, Tresmuraghes… solo per citarne alcuni.
In Puglia invece i nomi sembrano molto più comuni, ma così come esistono città che si chiamano Modugno, Barletta, Corato, Monopoli e Ostuni, esistono anche signori che si chiamano nello stesso modo: Modugno, Barletta, Corato, Monopoli e Ostuni!
E’ una straordinaria assonanza e armonia di suoni e parole. L’unico inconveniente è che a volte succedono fatti curiosi, come quello che sto per raccontarvi e si rischia di fare un po’ di confusione.
Era domenica, domenica trenta dicembre.
Il signor Barletta, che abitava a Monopoli in via Brindisi, doveva andare a trovare un suo amico carissimo che viveva a Corato.
Doveva arrivare prima a Bari e da lì prendere il treno delle ferrovie del nord barese che arrivano fino a Corato.
Prima di arrivare in stazione il signor Barletta si fermò un attimo in chiesa ad accendere una candela. Poi andò in stazione ad aspettare il suo treno.
Mentre aspettava, conobbe un giovanotto di trent’anni, il signor Corato, che era originario di Barletta, ma da qualche anno viveva a Brindisi, in via Monopoli. Adesso il signor Corato stava per recarsi a Barletta, per passare una giornata di festa insieme alla sua famiglia e fare dei giochi di società, come tutti gli anni, la prima domenica dopo il Natale.
All’improvviso però annunciarono che c’era un guasto alla linea, e tutti i treni sarebbero stati bloccati per diverse ore.
Il signor Barletta temette di non poter più raggiungere in tempo il suo amico Natale Monopoli, a Corato, per fare un brindisi insieme, e quindi sarebbe rimasto accorato a Monopoli, mentre il signor Monopoli avrebbe fatto un brindisi da solo al Bar Letta di Corato, perché sua moglie, la signora Candela, aveva deciso all’ultimo minuto di restare a casa a preparare la cena. Il signor Corato invece appariva piuttosto tranquillo, perché aveva pensato di chiamare un suo amico, il signor Brindisi, affinché passasse a prenderlo alla stazione di Monopoli e lo portasse fino a Barletta, per giocare a Monopoli con la sua famiglia.
Ma il signor Brindisi di dov’era? Naturalmente di Candela,  lavorava nei monopòli di stato di via Corato e abitava in via Barletta con sua moglie che si chiamava Domenica, Domenica Trenta.
Ah, dimenticavo una cosa…
La signora Domenica, Domenica Trenta, moglie del signor Brindisi, che abitava in via Barletta a Candela, aveva un gatto, un gatto che si chiamava Milano. Ma questa è tutta un’altra storia…[1]


[1] La storia del gatto Milano e del suo padrone, che  faceva il capostazione a Bologna. “Quando  arrivava un treno il gatto correva fuori a vedere; il capostazione correva fuori per paura che il gatto finisse sotto ai treno e lo chiamava: Milano, Milano! E tutta la gente, credendo di essere già arrivata a Milano, giù dal treno, fregandosi le mani. Di qui molte confusioni e avventure”. Rodari racconta questa storia al momento del conferimento del Premio Andersen, nel suo discorso di ringraziamento, Bologna, aprile 1970.

domenica 3 aprile 2016

Addio al Novecento - Osservazioni su 'Ritratto di Fabrizio De rossi Re' di Mario Baroni



Gian-Luca Baldi
Addio al Novecento
Osservazioni in merito al Ritratto di Fabrizio De Rossi Re di Mario Baroni

Le tematiche ed i problemi affrontati da Mario Baroni nel “Ritratto di Fabrizio De rossi Re” mi appaiono particolarmente importanti oggi, e per questa ragione desidero aggiungere delle osservazioni al suo articolo. Non tanto sulle conclusioni, che condivido pienamente:
dire che la musica di De Rossi Re è post-moderna o neo-tonale, è un non senso storico e corrisponde solo a una sorta di pigrizia terminologica di chi continua a usare parole vecchie perché non ha saputo inventarne di nuove e più adeguate.
quanto sul modo in cui si giunge a tali conclusioni.
Premetto che sono e mi sento profondamente un figlio del Novecento (sono nato nel 1961), e forse proprio per questo prendo così seriamente a cuore le questioni estetico-filosofiche che stanno alla base del mestiere del comporre. Ed inoltre che non appartengo a coloro che hanno sempre aspramente criticato il Novecento, o che hanno preteso e pretendono tutt’ora di ignorarne l’esistenza, saltandolo a piè pari come fosse un semplice ostacolo sulla via. Non solo mi sono dedicato con cura ed amore ai repertori atonali della prima parte del Novecento, per fare solo un esempio (grazie anche agli strumenti fornitimi dall’analisi insiemistica, approfondita negli Stati Uniti), studiando per anni Webern, Berg, e Schoenberg, in particolar modo quello del Libro dei giardini pensili, del Pierrot e di Erwartung. Ma sin dai primi passi negli studi della composizione ho ascoltato e seguito con entusiasmo i grandi compositori del secondo dopo guerra, come Ligeti e Berio, Kurtag e Maderna.
Tuttavia,  proprio a causa di questa vicinanza e di questo rispetto per tutto un repertorio, ritengo che sia giunto ormai il  momento di prendere pieno e consapevole congedo dal Ventesimo secolo, e in questo breve articolo vorrei ribadirne le ragioni.



L’orecchio ‘medio’

Scrive Baroni che certi giudizi nascono da «una sorta di pigrizia terminologica di chi continua a usare parole vecchie». Giustissimo, ma non credo che oggi manchino soltanto i termini adatti per descrivere la realtà che ci circonda, bensì troppo spesso anche gli stessi strumenti teorici e gli stessi concetti, indispensabili a comprenderla.
Tuttavia non si tratta di una novità. Osservando la partitura della Missa Si la face ay pale di Dufay e ascoltandone la musica, ho sempre pensato che il compositore fiammingo già possedesse nel 1420 una percezione chiara degli accordi e della loro concatenazione, mentre la teoria musicale avrebbe impiegato più di due secoli per spiegare e dare fondamento teorico a quelle intuizioni.
Stiamo vivendo in fondo qualcosa di simile a quello che accadde più o meno nella seconda parte del Trecento. Il processo tuttavia è con tutta probabilità ancora più complesso, ed è impossibile prevedere a cosa porterà. Se, ad esempio, verrà a crearsi un nuovo ‘linguaggio universale’ della musica, come nel Quattrocento, o come nel Sei-Settecento.  
Di fronte a questo processo siamo smarriti, e assolutamente poveri di sostegni bibliografici, teorici e metodologici. Possiamo solo basarci sull’intuito, e sull’esperienza, registrando quello che ogni giorno scopriamo a contatto con le generazioni più giovani, e parallelamente quello che ogni giorno sentiamo venirci dal di dentro, come frutto dell’incontro con gli anni che stiamo vivendo.
Anche per questo è molto difficile definire oggi quali siano le caratteristiche di ‘questo orecchio medio’ nel quale sarebbe «immersa la musica di De Rossi Re». Di certo si tratta di un orecchio diverso da quello di vent’anni fa, e alla cui formazione hanno contribuito non soltanto tutte le musiche che ascoltiamo, per lo più involontariamente, in dosi massicce. Ma che è stato formato soprattutto dal nostro nuovo modo di vedere la realtà, dal nostro nuovo senso del tempo, e da un fenomeno tanto misterioso quanto potentissimo ed incontrollabile, quel pendolo della storia che da secoli e secoli oscilla permanentemente tra ‘propensione’ alla dissonanza e ‘propensione’ alla consonanza.
Oggi siamo in una fase totalmente contraria a quella del secondo dopo guerra, una fase in sui si sta tornando ad una sensibilità ‘panconsonantica’, come la scuola inglese di fine Trecento. Una sensibilità quasi ‘vegana’, di estrema attenzione, quasi di timore, nei confronti degli urti e delle asprezze. Vent’anni di insegnamento della composizione, vent’anni di ampi spazi dedicati all’ascolto nelle mie classi dei repertori più diversi, in luoghi geografici diversi, da Bari, a Roma fino a Castelfranco Veneto, mi hanno convinto che questa onda potente sta compiendo il suo corso. I ragazzi si smarriscono oggi di fronte ad un tessuto dissonante marcato, ne sono come impauriti, lo rifuggono.
Tuttavia l’orecchio medio è come un lago instabile, le cui acque scivolano verso nord o verso sud a seconda dei movimenti imperscrutabili della terra. Sta al compositore dargli una direzione precisa, forgiarlo ed educarlo, pur nel rispetto della sua ‘essenza’. Intendo dire che si può cercare di inseguirlo ed adularlo. Oppure si può guidarlo, e stargli un po’ avanti, senza fuggire in avanti e finire negli spazi siderali e nel vuoto.
Questo è quello che hanno fatto i grandi compositori di sempre. D’altronde per tornare al concetto stesso d’avanguardia, se il drappello che si spinge in avanti per perlustrare e monitorare le linee nemiche perde completamente i contatti con tutto il resto dell’esercito, è la sua funzione stessa che viene meno e perde di senso.
Basterebbe pensare a ciò che avveniva alla fine dell’Ottocento: le musiche di Debussy, di Ravel o di Strauss, per esempio, per non parlare di Respighi e di molti altri, erano immerse nella tradizione ottocentesca e su quella si basavano per dire le cose nuove che a quei compositori stavano a cuore.
Anche questa affermazione è indubbiamente indiscutibile, ma mi preme sottolineare che i grandi maestri e compositori citati da Baroni non erano certo ‘accarezzatori’ delle orecchie del pubblico. Questo per me è un punto fondamentale.
Non c’era niente di ‘compromissorio’ nelle loro scelte linguistiche. Erano scelte rivoluzionarie, visionarie ed innovative. Ma compiute ‘in equilibrio’. Erano nuove piante che crescevano nel giardino della tradizione, non pretendevano di essere cactus nel deserto. Il concetto di ‘innovazione’ come rivoluzione radicale’, come sconvolgimento alle radici dell’ordine costituito, come tabula rasa di ciò che esisteva prima, è un concetto tipico delle avanguardie del secondo dopo guerra, e ne è in qualche modo un sintomo patologico ed allarmante. Il segno di una perdita di senso dell’arte stessa, e di crisi profonda della società contemporanea.
Il linguaggio di Ravel, ad esempio, punta culminante di un’intera nazione che intraprese già all’inizio dell’Ottocento un lungo e interessantissimo viaggio per uscire dal linguaggio tonale, era un linguaggio radicalmente nuovo, che portò il vecchio linguaggio tonale ad una completa trasformazione, traghettandolo nel nuovo secolo, il Novecento. Non ci si lasci ingannare dalla sua elegante e gradevole eufonia. Quello di Ravel si dimostrò un linguaggio duttile e ricco, con una tavolozza di possibilità espressive che andavano dalla tonalità complessa e cromatica della scuola francese, al linguaggio modale novecentesco fino al linguaggio atonale o addirittura ‘pre-minimalista (nelle Chansons Madécasses e nei Trois Poèmes de Mallarmé, ad esempio), per il quale è stato coniato un nome, che ancora qui da noi in Italia fa fatica ad imporsi, ma che la musicologia internazionale ha universalmente accettato: la tonalità modale. Il termine è stato coniato da Jacques Chailly (Chailly, 1960, p. 5), ma per comprenderne profondamente la natura si veda soprattutto il testo fondamentale di Henri Gonnard (Gonnard 2000).
Ora, la strada francese, che vedrà un altro gigante del Novecento all’opera, come Messiaen, portare il testimone di questa lingua nella seconda parte del secolo, non compie un’opera di ‘ripudio’ ma di integrazione. Vale a dire che non bandisce definitivamente le sonorità tradizionali – quegli accordi maggiori e minori che Hindemith affermò essere universali irrinunciabili della musica «come la pioggia, la neve ed il vento» (Hindemith, 1942, p.22), il che gli valse l’ostracismo di tutta l’avanguardia post-bellica – ma le integra con un’ampissima tavolozza di sonorità nuove. D’altronde lo stesso Schoenberg (Schoenberg 1922, p. 207), in tutti i suoi scritti, ha sempre affermato che il rinunciare agli accordi tradizionali era solo una necessità momentanea, volta a verificare se i nuovi materiali ‘ce la facevano da soli’.
Poi, nel secondo dopo guerra, questa messa al bando delle ‘sonorità tradizionali’ e di tutto ciò che aveva una parentela ‘triadica’, divenne definitiva con un gruppo di compositori che occupò interamente l’attenzione della musicologia, ma non quella della storia né tanto meno del pubblico. La musica sembrò quindi divenire ‘pandissonantica’, così come, in maniera inversa, alla fine del Trecento, e dopo le aspre durezze di Machaut, era divenuta panconsonantica con Dunstable.
L’era della pandissonanza
La ‘pandissonanza’ – il cui arco vitale limiterei tra il 1946 e il 1985, l’anno delle dichiarazioni di Ligeti in La mia posizione di compositore oggi (Restagno 1985, p. 3) si reggeva su due premesse: un atteggiamento di estrema rigidezza, direi quasi di furore ideologico, di cui possiamo tuttavia comprendere e scusare le ragioni: la necessità di ricostruire sulle ceneri della guerra un mondo nuovo, di ripartire dall’anno zero non solo della musica ma dell’umanità tutta;  e la convinzione che quello che allora pareva ‘pandissonanza’ sarebbe ben presto divenuto piacevole e naturale, come sostiene Karlheinz Stokhausen nel corso dell’ottava puntata di C’è musica & Musica (un programma affidato a Luciano Berio, 12 puntate in prima serata  del 1972)  dedicata proprio alla musica contemporanea:
«Io stesso sono padre di sei bambini, che fanno parte di una generazione venuta dopo e che evidentemente si trova spontaneamente a suo agio nel mondo moderno e vuole sentire questa musica e trova naturalissimo ascoltarla».
Le premesse ideologiche di quelle scelte oggi non esistono più o comunque non hanno nessun fondamento. La speranza di rifondare da zero non solo la musica e l’orecchio umano, ma l’umanità tutta, si è dimostrata purtroppo una mera utopia, se non addirittura un fallimento. Le condizioni storiche, politiche, filosofiche ed estetiche, sono incredibilmente mutate da allora. E quegli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale sembrano oggi, per molti versi, più lontani da noi che le guerre napoleoniche.
Il cammino della storia poi, per quanto riguarda la dissonanza, ha preso tutta un’altra strada. Le nostre orecchie non solo non si sono abituate agli urti, ma sembrano comprenderli e metabolizzarli sempre meno.
Diciamo quindi che quelle scelte, uniche in tutta la storia della musica occidentale, che con grande scommessa e grande ardire, bandivano non solo le consonanze dal linguaggio musicale ma la dialettica stessa ombra-luce, anzi l’idea stessa di colori, di varietà e contrasti, sono ormai, completamente e definitivamente superate.
Naturalmente ci saranno ancora coloro che sostengono che tale linguaggio ha ancora molto da dare e da dire. Di epigoni entusiasti ce ne saranno sempre. Come quel Robert Fuchs di solida ortodossia brahmasiana che vinse il Premio Beethoven nel 1881, lo stesso concorso che convinse Mahler si a darsi definitivamente alla direzione d’orchestra, non avendovi ottenuto alcun riconoscimento.
La musica di Fabrizio De Rossi Re non solo e non tanto mantiene un legame con l’orecchio medio, quello stesso sapiente equilibrio e giusto distacco che tutti i grandi compositori del passato hanno sempre mantenuto, ma parla della realtà nella quale è immersa. Racconta dei nostri anni, delle nostre contraddizioni, delle impurità, del multiculturalismo e perfino della caoticità del mondo contemporaneo nel quale viviamo. E cos’altro fare un linguaggio se non essere ‘contemporaneo’, sintonizzarsi e armonizzarsi col mondo nel quale vive?
Al contrario tutte le musiche della post-avanguardia oggi suonano ‘vecchie’, fuori posto. Non solo la loro pandissonanza ma anche la loro ‘purezza’ le colloca in un passato remoto nel quale non possiamo più riconoscerci. Si avverte quell’organicità germanica, quella pignola attenzione alle altezze e ai sistemi per ricavarle e metterle in rapporto le une con le altre che hanno denotato tutta una civiltà musicale ma che ormai sono estinte come lo sono i dinosauri.
Quando ascolto i Due notturni con figura di Fedele, il primo dei quali per sei interminabili minuti (ai quali segue un bizzarro episodio elettronico alla ‘Pink Floyd’) reitera quella manciata cromatica di altezze secondo procedimenti ripetuti innumerevoli volte nell’ultimo secolo, con la sola differenza di una spazializzazione che solo in un’esecuzione dal vivo si può cogliere, avverto il lavoro di un grande artigiano della musica, di un abile rifinitore e maestro di tecniche antiche, ma che è ormai avulso dalla contemporaneità. Non è un caso che abbia recentemente dichiarato che con la morte di Boulez sia morto il Novecento. Verrebbe da dire: “Egregio maestro Fedele, il Novecento è morto trent’anni fa e non se n’è nemmeno accorto!”.
E qui sta il paradosso della post-avanguardia: i figli di coloro che hanno fatto la rivoluzione, di quegli indomiti ‘guerrieri’ che salirono sulle barricate e pagato col sangue  le loro scelte coraggiose, sono finiti ad essere impiegati dei piani alti del ministero della conservazione e dell’accademismo.
Pensare che De rossi Re sia un neo-tonale e si schieri tra coloro che si oppongono al corso inevitabile della storia, mentre Fedele sia un avanguardista ed innovatore è come ritenere che Beethoven nel 1821 fosse un retrogrado perché aveva inserito la fuga nella sua 110, non comprendendo cioè come la fuga nelle mani di Beethoven fosse divenuta qualcosa di completamente diverso che prendeva e dava luce nuova ad una forma- sonata ormai irriconoscibile.


Al contrario, le musiche di De Rossi Re, e di altri compositori che parimenti si sono allontanati dalle vecchie avanguardie, possono piacere o meno, reputarsi a volte deboli o eccessivamente piacevoli e ‘graziose’, ma riescono ad avere la sincerità e la profondità di parlare all’oggi, con tutte le sue contraddizioni. In esse c’è l’eco del nostro mondo contemporaneo, e facendosene specchio, ci aiutano a capirlo meglio e a capire noi stessi. Sotto l’ingannevole apparenza di recuperare vecchi stilemi del passato procedono invece in avanti. Osano con coraggio, fanno opera di sintesi e armonizzazione.
Il problema è che non sempre si hanno gli occhiali per accorgersene e che la teoria musicale, la musicologia, la stessa teoria compositiva, non hanno ancora prodotto quegli strumenti per vedere le novità di cui sono portatori. Ma vedono solo ciò che hanno imparato a vedere cento anni fa e non altro. E’ tempo invece di rinnovare le nostre lenti per guardare alla realtà con sempre maggiore consapevolezza e acutezza.
Gian-Luca Baldi (Bologna, 1961), è un compositore, scrittore, didatta e saggista. Titolare della cattedra di composizione presso il conservatorio di Castelfranco Veneto, è autore di oltre una sessantina di composizioni, tre romanzi e decine di saggi e articoli, oltre a diversi libri di teoria musicale e didattica. Collabora dal 2014 con la rivista «Prometeo» della Mondadori, e dal 2015 vi tiene la rubrica ‘De Musica’.
Tra i suoi testi  più importanti:
Introduzione alla modalità e al pensiero musicale moderno, Berbèn, Ancona 2002.
Grammatica dell’armonia fantastica – Appunti e Interludi, Anicia, Roma 2012.
Grammatica dell’armonia fantastica – Quaderni di lavoro, Anicia, Roma 2014.
Cronodiànoia o del realismo interiore – Proposte per la musica del XXI secolo, Armellin, Padova 2015.

Bibliografia
J. Chailly, L’imbroglio des modes, Alphonse Leduc, Parigi 1960.
H. Gonnard, La musique modale en France de Berlioz a Debussy, Edition Champion, Parigi 2000.
P. Hindemith, The Craft of Musical Composition, Book I, Schott, London 1942.
E. Restagno (a cura di), Ligeti, EDT, Torino 1985.
A. Schoenberg,  Twelve Tone Composition (1923) in Style and idea, University of California Press, Berkeley 1975.